Psicologia dello yoga – Giulio Cesare Giacobbe [recensione]
Può l’autore di libri intitolati “Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita”, “Come diventare un Buddha in cinque settimane – manuale serio di autorealizzazione” e altri del genere avere scritto un’analisi seria degli Yogasutra di Patanjali, il libro fondamentale dello Yoga antico e moderno? La risposta è sì. Anche perché in realtà gli altri libri di Giulio Cesare Giacobbe hanno un contenuto serio e utile, esposto in uno stile divertente anche se a volte eccessivamente portato alla batutta fine a sé stessa.
Prima di diventare un autore di best seller divertenti e controversi come quelli citati, Giulio Cesare Giacobbe aveva scritto “La psicologia dello yoga (lettura psicologica degli Yoga Sutra di Patanjali)”, pubblicato dalla Ecig di Genova nel 1994. Si tratta di un libro universitario, scritto in gergo universitario, quindi serio e talvolta di difficile lettura. Ciononostante, si tratta di un’analisi estremamente interessante del libro fondamentale della filosofia Yoga, gli Yogasutra di Patanjali.
Il punto di Giacobbe
La tesi di fondo del saggio è che gli Yogasutra non sono né un trattato filosofico né un trattato religioso, bensì un manuale pratico di psicoterapia, per di più molto avanzato se si considera che è stato scritto circa duemila anni fa. Infatti anticipa di altrettanti anni la scoperta dell’inconscio (fatta da Sigmund Freud alla fine del 1800, per la cultura occidentale), pone le basi del training autogeno, anticipa l’autoipnosi e diverse altre scoperte della psicologia moderna.
Il libro di Giacobbe è raro o forse unico nel panorama dell’esegesi yogica, perché, sia pure con tono universitario, si assume la responsabilità di esprimere dei pareri chiari su alcuni punti potenzialmente controversi dello yoga tradizionale, ad esempio i poteri soprannaturali, le Siddhi.
Patanjali ne parla nel terzo libro degli Yogasutra, elencandone diverse, fra cui la capacità di diventare immensamente grandi, immensamente piccoli, prevedere il futuro, volare, spostarsi nel tempo e nello spazio. Le Siddhi si possono conseguire praticando yoga e, in teoria, qualsiasi yogi può conseguirle, se pratica bene. Si tratta “superpoteri” di cui da una parte bisogna guardarsi, perché non sono il fine ultimo della pratica dello yoga, e dall’altra sono il segnale che “stiamo lavorando bene”, per così dire. Alcune di queste siddhi possono essere agevolmente interpretate come trasfigurazioni poetiche o metaforiche di effetti naturali. Ad esempio, la capacità di “leggere il pensiero” può essere semplicemente la migliore comprensione della natura umana e degli altri che deriva dalla pratica dello yoga: è un effetto che molti praticanti normali verificano. Diventando più tolleranti, praticando yoga si impara a comprendere meglio gli altri. Altre siddhi richiedono interpretazioni più acrobatiche: diventare infinitamente piccoli o essere capaci di volare cosa vuol dire? Cerchiamo un’interpretazione allegorica o sorvoliamo sull’interpretazione letterale?
Mi fai uno strano effetto.
Giulio Cesare Giacobbe è probabilmente l’unico o uno dei pochi a sbilanciarsi sul tema delle siddhi. Gli altri commentatori moderni si dividono in due campi: quelli che, messi alle strette, le attribuiscono a un lontano, mitologico passato (un po’ come, una volta, si pensava che gli antichi fossero più santi, buoni e retti dei contemporanei); quelli che sorvolano, un po’ imbarazzati passando rapidamente ad altri temi.
Giacobbe invece dice chiaramente che, secondo la sua informata opinione, si tratta di fenomeni autosuggestivi, quindi soggettivamente autentici: lo yogi prova veramente la sensazione di volare, ma chi lo osserva continua a vederlo saldamente seduto a terra, in osservanza della vigente legge di gravità.
Naturalmente questo non esclude, per i più esoterici, che le parole di Patanjali sulle siddhi non possano essere prese sul serio. Anche se Giacobbe giustamente osserva, a sostegno della sua tesi, che lo stesso Patanjali specifica che i superpoteri possono essere conseguiti anche attraverso l’assunzione di droghe. Per il momento pozioni per diventare invisibili oppure onnipotenti non se ne conoscono, però è ampiamente documentato il fatto che alcune sostanze possono procurare qualsiasi genere di sensazione e allucinazione, dall’alcol alle droghe chimiche di sintesi. Come può confermare qualsiasi tossicologo, l’effetto allucinogeno delle droghe può essere estremamente vivido e realistico, ma sempre soggettivo. L’eventuale mostro a tre teste che vediamo è realistico solo nella nostra mente e nelle nostre sensazioni personali.
Da parte mia posso raccontare la mia esperienza personale. In alcune occasioni ho sperimentato almeno due siddhi: volare e sentire il mio corpo crescere smisuratamente. In entrambi i casi, posso testimoniare, si è trattato di autosuggestione. D’altra parte è comune l’esperienza, mentre si dorme, di sognare di volare, sempre con vivissimi realismo, segno evidente che il nostro sistema nervoso è in grado di indurre effetti allucinatori realistici con relativa facilità.
Possiamo aggiungere anche questa considerazione: alcune forme estreme di controllo del corpo, come rallentare o fermare il battito cardiaco, o addirittura simulare il decesso, perdono la loro luce soprannaturale se si tiene presente questo fatto: molti mammiferi di ogni dimensione sono in grado di entrare in letargo, stato di sospensione vegetativa molto simile alla morte, soprattutto in assenza di mezzi diagnostici avanzati. La temperatura del corpo si abbassa, il battito cardiaco diventa impercettibile. Può essere quindi possibile, senza bisogno di spiegazioni soprannaturali, che alcuni yogi siano in grado di attivare il meccanismo del letargo, un meccanismo che magari, in via teorica, sarebbe accessibile a tutti gli esseri umani, oppure che è accessibile, a certe condizioni, solo ad alcuni di essi, un po’ come l’orecchio assoluto, una vista particolarmente acuta o altre caratteristiche personali molto rare ma non per questo considerate soprannaturali.
Come raggiungere il Samadhi e ritorno
Un altro tema su cui Giacobbe si sbilancia è quello del samadhi.
Anche questo è un tema su cui gli altri commentatori tendono ad essere evasivi, classificando il tema fra gli eventi soprannaturali e una forma di santità interreligiosa. Giacobbe invece si sbilancia anche qui, descrivendolo come un fenomeno fisiologico di “implosione della percezione”. Durante il samadhi, secondo l’interpretazione di Giacobbe, si verifica “un vuoto mentale in cui è presente soltanto l’autoconsapevolezza dell’esistenza della percezione”. In pratica, se non percepisci null’altro che la percezione stessa, la perdita di contatto con il tempo e con lo spazio determinerebbe un’autosuggestione di onnipotenza, onnipresenza ed eternità, probabilmente con varie gradualità a seconda dell’esperienza e della pratica. Infine “l’assenza della percezione dell’IO, perenne oggetto di aggressioni presunte o reali e quindi attivatore costante dello stato di tensione, dà luogo ad una totale assenza di tensione e quindi a una percezione di beatitudine”. In altre parole, durante la pratica dello yoga, quando raggiungiamo gli stati di concentrazione più elevati, dimentichiamo totalmente i nostri problemi, e possiamo provare livelli di beatitudine (generata dall’assenza di ogni tensione) sempre più elevati, fino a un’estasi cosmica che in realtà riguarda unicamente le nostre percezioni.
Questo, nelle persone paranoiche, secondo Giacobbe potrebbe portare a una crescita sproporzionata dell’Io, che identificandosi con l’intero universo durante l’autosuggestione samadhica, confonde la sensazione di onnipotenza con una presunta onnipotenza spirituale autentica, sensazione di onnipotenza accentuata anche dalle siddhi autosuggestive. Il samadhi sarebbe quindi una forma di fuga dalla realtà, autoprocurata con la pratica dello yoga, senza l’uso di sostanze chimiche né medicinali.
Yoga, meglio di niente (secondo Giacobbe)
Le conclusioni di Giulio Cesare Giacobbe non sono totalmente lusinghiere per la pratica dello Yoga come psicoterapia. Pur riconoscendo a Patanjali alcuni interessanti primati, come l’analisi del processo psicologico-percettivo, l’individuazione dell’inconscio e del concetto di ego, cui la psicologia occidentale è arrivata un paio di millenni dopo, attribuisce allo yoga un’efficacia limitata.
Per esempio la necessità di una prudente iniziazione richiesta dall’antica tradizione, secondo Giacobbe sarebbe dovuta al fatto che le persone poco equilibrate in partenza possono accentuare i loro problemi durante la pratica dello yoga. In effetti è esperienza comune di molti insegnanti di yoga che, mentre una blanda depressione o uno stato di ansia possono essere rapidamente alleviati dalla pratica, una persona con sindrome ansiosa-depressiva diagnosticata e bisognosa di cure mediche invece deve essere avviata allo yoga con prudenza. Infatti il forte depresso e il forte ansioso, se si mettono in una stanza a praticare yoga, meditazione o pranayama senza rete e senza un adeguato periodo di avvicinamento, possono avere un immediato peggioramento dei sintomi: l’introversione dello yoga li porta ad arrovellarsi e pensare ancor di più ai loro problemi, invece di rilassarsi come fa la maggior parte delle persone. Infatti Giacobbe dice “L’iniziazione tradizionale ha precisamente questo scopo: di accertare che l’aspirante non sia un portatore cronico e irrecuperabile di tensione, cioè un nevrotico grave o uno psicotico”.
Una lettura rivoluzionaria e irriverente.
Il saggio di Giacobbe è una lettura importante per chi vuole esplorare un punto di vista diverso della tradizione yogica. Andrebbe forse rivisto nel linguaggio, almeno nell’ipotesi di una nuova edizione più divulgativa, e forse qualche sanscritologo farebbe le pulci a qualche traslitterazione dei termini sanscriti. Ma, nonostante questi modesti e opinabili difetti, andrebbe sicuramente ripubblicato e maggiormente diffuso nel mondo dello yoga internazionale, perché le osservazioni di Giulio Cesare Giacobbe sono sicuramente uno spunto di riflessione utile tanto per gli yogi “razionalisti” quanto per quelli “tradizionalisti”, alla ricerca di una nuova sintesi o di una migliore percezione del proprio punto di vista sulla fisiologia e sulla psicologia dello Yoga.
È un libro che espone concetti controversi, ma che merita di essere letto da chiunque si interessi approfonditamente di yoga e della sua filosofia. Il libro è del 1994 e purtroppo è abbastanza difficile da trovare.
Giulio Cesare Giacobbe
La psicologia dello Yoga (lettura psicologica degli Yoga Sutra di Patanjali)
Ecig Universitas
Ecig – Edizioni Culturali Internazionali Genova 1994
ISBN – 88-7545-625-9